mercoledì 1 giugno 2016

Julieta

Sulla Croisette i giornali di tutto il mondo hanno titolato: "Almodóvar torna alle origini con una storia di donne sofferenti". L'accoglienza riservata alla nuova fatica del cineasta spagnolo al recente Festival di Cannes, dove era in concorso, non è stata però delle più calorose.

Dopo la parentesi deludente del demenziale "Gli amanti passeggeri" e del thriller psicologico "La pelle che abito" (a parer mio più che convincente), c'era molta aspettativa per questo film che riuniva i temi cari al regista: il lutto, la perdita e personaggi femminili posti di fronte a sfide insormontabili.
"Julieta" è fondamentalmente un'opera sul delicato e difficile rapporto tra una madre e una figlia, che gioca su continui flashback e ricostruzione a incastro degli eventi, come già succedeva ne "Gli abbracci spezzati".


La vita di una donna in un lasso di tempo di 30 anni, tra segreti e foto strappate, viene riassunta nell'immagine iniziale: un vestito rosso fuoco che "respira", un cuore pulsante di lì a poco impresso sulla pelle del suo amato e lacerato dalle ferite di un incidente mortale.
La protagonista, interpretata nella giovinezza da Adriana Ugarte e nell'età adulta da Emma Suarèz con la medesima intensità, è una donna costantemente in fuga dal passato, che cerca di ricostruire la propria identità spezzata attraverso un diario indirizzato alla figlia che da 12 anni non dà notizie di sé.
Un abbandono, una perdita, che il regista lentamente ricostruisce evitando i toni accesi del melodramma per concentrarsi sull'essenziale, sul dolore puro e non accomodante, scevro dall'eccesso che pur tanto suo cinema ha spesso contraddistinto.
Il rischio però qui è che il pathos ne risenta: nonostante il tema oggettivamente drammatico e doloroso, le vicende della protagonista non riescono a emozionare fino in fondo.
Come la (forzata) scena al rallenty del cervo scorto attraverso il finestrino di un treno in corsa, la giovane Julieta corre verso il suo destino incurante delle conseguenze delle proprie scelte, scegliendo un paesino di pescatori sferzato dal vento e dalle tempeste come sua dimora. Un ambiente secco, ruvido come l'uomo che ama, reso inospitale anche dalla terribile domestica (interpretata da una quasi irriconoscibile Rossy de Palma invecchiata e imbolsita), dove subirà il tradimento, la perdita e successivamente entrerà in depressione.
La figlia Antia l'accudirà come un genitore amorevole fino a che, compiuti i 18 anni, non punirà la stessa madre con la propria assenza, e il rancore celato in tutti quegli anni esploderà nella più estrema delle scelte.
Tuttavia la sensazione che sovrasta l'intera pellicola è che Almodóvar si sia voluto trattenere, girando con il freno a mano tirato, rendendo troppo algida e distaccata la tragica vicenda di Julieta. 
Il suo tocco e il suo stile sono fortemente presenti, ma la scintilla e la vitalità che l'hanno sempre contraddistinto non sono purtroppo pervenute, così come la pungente ironia e la passione solamente accennate. 
E dispiace, perché il film aveva tutte le carte in regola per riportare il regista ai fasti delle sue opere più riuscite e sentite, come "Tutto su mia madre" e "Parla con lei".
Il finale aperto, quasi mozzato, di fatto nega la riconciliazione tra Julieta e la figlia, e forse anche tra Pedro e il suo pubblico, quasi volesse dirci: "Vedete, non sono più quello di prima, una volta avrei girato la scena dell'abbraccio tra le due donne, adesso sono cresciuto." 
Ma la maturità artistica non necessariamente coincide con l'assenza di sentimenti.

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