venerdì 13 ottobre 2017

Blade Runner 2049


Usciti dall'intensa visione di "Blade Runner 2049" (140 minuti forse non tutti necessari), la prima cosa che ci sovviene di questo sequel del cult di Ridley Scott è anche il suo punto di forza principale, vale a dire l'abilità di Denis Villeneuve nel realizzare un nuovo capitolo in grado di reggersi sulle proprie gambe senza troppi paragoni inutili con l'originale del 1982.
Ovviamente questa è un'arma a doppio taglio, in quanto gli irriducibili fan della prima ora potranno muovere critiche di ogni sorta al riuscito film del regista canadese (che da 4 anni a questa parte non sembra sbagliare un colpo), ma non è questa la sede per mettere a confronto le due opere. 


Perché oltre a mantenere l'atmosfera del primo "Blade Runner", doverosa ma senza il melenso effetto nostalgia, Villeneuve espande la filosofia dei replicanti ben oltre ciò che potessimo aspettarci (anche se i dubbi erano pochi soprattutto dopo la fantascienza con cervello di "Arrival"), evitando di stravolgerne il senso e creando anzi le basi per un ulteriore racconto che verosimilmente potrebbe essere esplorato senza troppe indignazioni.



Affascinante nella costruzione dell'indagine affidata all'Agente "K" (un Ryan Gosling in parte anche se eccessivamente impalpabile), il film gioca con rimandi e nuovi elementi, come la replicante Luv ideale linea di congiunzione con l'affascinante Rachel del primo capitolo che, nemmeno troppo simbolicamente, nella parte finale della pellicola ucciderà proprio la sua versione "datata" per aspirare ad essere qualcosa di più. 


Metaforicamente, un po' come "Blade Runner 2049" vuole destrutturare il precedente film di Scott per appropriarsi del suo personale universo.
Riuscendoci, come già detto, ma non senza alcune pecche: innanzitutto l'assenza di un antagonista centrale sufficientemente efficace e 'badass', in quanto il personaggio di Wallace interpretato da Jared Leto è fin troppo evanescente e logorroico nel suo filosofeggiare. Resta sospeso il vero nemico di "K": è l'umano? Oppure lo stesso Wallace con i suoi deliri di onnipotenza? O ancora il sistema che vuole impedirgli di essere libero? 


Inoltre la creazione di un esercito di rivoluzionari e la conseguente insurrezione che vogliono mettere in atto arrivano ad un punto troppo avanzato della narrazione, quando ormai il pathos è già estinto e l'attenzione spostata verso il destino del redivivo Deckard, un Harrison Ford abbonato ormai ai ruoli che l'hanno reso famoso negli anni '80, nondimeno sempre abile nel valorizzare ciò che ha da dire e, francamente, è impossibile non sussultare quando riemerge dalle ombre.
Nel complesso comunque un'opera ben realizzata, con la splendida fotografia di Roger Deakins (sarà finalmente Oscar dopo svariate nominations a vuoto?) e la folgorante colonna sonora a opera di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch (che non fanno rimpiangere quel capolavoro di Vangelis, e tanto basta) a completare un quadro che unisce intrattenimento mainstream e grandi idee, sapienti effetti visivi e temi etici più che mai attuali.

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