mercoledì 15 febbraio 2017

Fences (Barriere)

Troy Maxson è un uomo di mezza età che vive nei sobborghi di Pittsburgh alla fine degli anni '50, lavora come netturbino e vive con la moglie Rose e il figlio diciassettenne Cory.
La sua vita scorre in modo apparentemente semplice: casa, lavoro, quattro chiacchiere con il suo migliore amico, una bottiglia di gin nel fine settimana per stemperare lo stress, un rapporto ancora passionale con la moglie devota. Ma un terribile segreto ben presto sconvolgerà la sua vita, e sarà costretto a fare i conti con gli errori e il dolore causato ai suoi cari.


Vite di tutti i giorni. Si potrebbe dire persone ordinarie raccontate in modo straordinario: questo realizzava nel 1983 il drammaturgo August Wilson con la sua pièce teatrale "Fences", vincitrice del Premio Pulitzer e del Tony Award
Quella storia oggi è diventata un film diretto da Denzel Washington, che interpreta anche il protagonista, affiancato da Viola Davis. Entrambi gli attori riprendono i ruoli di Troy e Rose che avevano già portato in scena a Broadway nel 2010 in un nuovo allestimento dell'opera con grande successo (vinsero entrambi il Tony nelle rispettive categorie attoriali).

Il pilastro della pellicola, ovviamente, risiede nella sceneggiatura dello stesso Wilson (scomparso nel 1995, fortunatamente aveva già dato alle stampe l'adattamento cinematografico) che, attraverso lo spaccato di una famiglia di colore del secolo scorso, riesce a parlare di temi universali come la povertà, il riscatto sociale, lo scontro tra padre e figlio, l'espiazione e, non ultimo, il ruolo femminile in una società fortemente maschiocentrica.
Il limite di "Fences (Barriere)" sta proprio nella sua derivazione: la regia fin troppo sobria di Washington non riesce a elevare il film al di sopra dell'opera originale, schiacciando il risultato finale senza particolari intuizioni o meccanismi che riescano a svincolarlo dal materiale di provenienza. 
Ciò che ci viene restituito è un prodotto dalle grandi intenzioni che gravita costantemente sul pericoloso confine del "teatro filmato", se non fosse per le straordinarie interpretazioni di Washington e della Davis che donano anima e corpo a due protagonisti vibranti, che sprigionano vita e onestà da ogni poro, da ogni sguardo. 
E' soprattutto il personaggio di Rose (mai come quest'anno Viola Davis merita l'Oscar, la sua prova attoriale è semplicemente perfetta) quello più incisivo, che alla fine riesce a ritagliarsi uno spazio accanto a quello strabordante e soffocante di Troy, colei che rappresenta il passo verso il futuro, la devozione ma anche il libero arbitrio, la figura femminile come colonna portante del nucleo familiare. Linfa vitale di un progetto, ahimè, riuscito a metà. 

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